www.spaventapasseri.it
fiaba per piccoli e grandi
di Luisa Caeroni
“Cavolaccio, che staffilata!” Spaventapasseri
era proprio arrabbiato. Ne avesse almeno due di gambe; ma quel paletto infilato
per terra costituiva l’unica sua possibilità di stare in piedi.
“Con tanto posto al mondo, proprio qui vicino a me dovete venire a giocare!
E per giunta mi arriva sempre la palla addosso! Bei mascalzoni.”
I ragazzi non gli davano peso, anzi lo apostrofavano sempre “gamba di
legno”.
“Nessuno più insegna l’educazione in questo paese? Alla
prima occasione ve la insegno io l’educazione! Vi farò sentire
io com’è tosta questa gamba di legno.”
Spaventapasseri era nuovo del posto e non riusciva a tollerare tutta quell’irruenza
e quel baccano proveniente dal prato vicino che inesorabilmente si propagava
nel campo di sua pertinenza. Aveva dovuto accettare quel lavoro per non aver
trovato di meglio. Lì, impalato a controllare che nessuno danneggiasse
le coltivazione tutt’intorno. Sapeva che aveva il compito di allontanare
gli uccelli o altri animali selvatici, ma non immaginava la presenza di quei
mocciosi. Non li aveva mai frequentati lui i bambini e mal sopportava la loro
veemenza. In qualcosa aveva ragione, perché quando gli passavano accanto,
non gli risparmiavano una piccola molestia, come fargli volare via il cappello
o appiccicargli il chewing-gum sul paletto o tirargli una manica; insomma
ne inventavano sempre una nuova pur di irritarlo. Il poverello ne aveva di
dispetti da elencare! Li teneva lì, tutti in testa per potersi vendicare
appena possibile.
Quando arrivò la fine dell'estate, i bambini diradarono i loro giochi
all’aperto e Spaventapasseri si accorse che tutto sommato quei piccoli
terremoti gli riempivano la giornata. Senza di loro si annoiava a morte. Piano
piano prese ad indulgere su tutto ciò che facevano: erano bambini,
dovevano pur sfogarsi in qualche modo. Sopportò in silenzio le pallonate,
le dispettose manomissioni del suo abbigliamento e quant’altro inventassero
per divertirsi alle sue spalle. Incominciò a conoscerli bene, ad apprezzarli,
a chiamarli per nome, ad incitarli al gioco.
Con gli uccelli invece non era accondiscendente. Quando si azzardavano a beccare
nel campo, li scacciava in malo modo. Specie le cornacchie: sempre lì,
a svolazzare con apparente indifferenza, pronte ad approfittare di una sua
minima distrazione.
“Via, via; qui non c’è niente da mangiare! Andate a lavorare
anche voi come faccio io, brutti uccellacci neri, o tornate da dove siete
venuti”, gridava con asprezza. Gli uccelli rispondevano con gracchiate
offensive e si allontanavano.
Venne l’autunno e il freddo iniziò a farsi sentire con molto
anticipo. Spaventapasseri ebbe un periodo di crisi. Si rese conto di essere
solo, di non aver amici e i ragazzetti, che davano un senso alla sua vita,
non venivano quasi più al campo.
Passò del tempo, l’inverno arrivò con tutte le afflizioni
che gli erano consone. Spaventapasseri, rinsecchito nei sui stracci ammantati
di galaverna, cercava di consolarsi con l’idea che prima o poi sarebbe
tornata la primavera e avrebbe rivisto i suoi ragazzi giocare nel campo accanto
al suo. Certo ora, avvolto in quell’abito luccicante di brina avrebbe
fatto la sua bella figura, invece non c’era nessuno ad ammirarlo, anche
la nebbiolina lo nascondeva agli occhi dei pochi passanti.
Ogni giorno, nella speranza di essere udito chiamava a squarciagola:
“bambini, ragazzi, fanciulli, amiciiiiii…..”
Nulla, per un lungo periodo, nulla.
Spaventapasseri decise allora di stringere amicizia con qualcuno che era solito
passare di lì, accontentandosi di chiunque fosse disposto a condividere
un po’ di tempo con lui. Vide una cornacchia volare poco lontano e la
chiamò:
“Eiiih, cornacchia, bellaaa…, vieniiii…, ho qualcosa da
mangiare per te!”
L’uccello non volle credere alle sue orecchie: Spaventapasseri lo invitava
a mangiare! Era di sicuro un tranello, e si allontanò velocemente.
Il poveretto ci restò male e dopo altri tentativi andati a vuoto, si
rese conto che per avere amici non basta darsi da fare all’ultimo momento,
ed egli non aveva fatto mai niente in precedenza in favore degli altri. Scacciò
ogni rimorso giustificandosi: - ho dovuto lavorare sodo io, non sono uno che
se la gode da mattina a sera!- e si consolò nella convinzione che alla
fine sarebbero arrivati i bambini.
In quel contesto di terribile solitudine i suoi panni si afflosciavano sempre
più; la sua mente inerte per mancanza di lavoro a causa della sterilità
delle zolle fondeva i pensieri rendendoli un pasticcio vomitevole.
Una mattina, al risveglio, dopo una notte offuscata dal deperimento, aprendo
gli occhi si accorse che tutt’intorno era ammantato di bianco. “La
neve, ecco la neve, forse l’inverno se ne andrà presto.”
Alzò gli occhi verso il sole: la montagna di fronte ostentava il suo
candore e lo scialle azzurro che il cielo le concedeva spesso, le dava una
regalità mai riscontrata prima. Una roccia spuntava da sotto la cima
come un diamante che brilla sul decolleté di una fata.
Quella visione fantastica e il calore del sole rigenerarono Spaventapasseri.
“E’ bello questo mondo” si disse. “Anche quando sembra
che tutto sia contro di te arriva sempre qualcosa che ti fa stare meglio.
Forza Spaventapasseri!!!”
Quella mattina il sole fu prodigo con lui: gli asciugò i panni addosso
e gli infuse un tepore che riuscì anche a insinuargli sentimenti di
tenerezza, mentre un volteggiare di uccelli allietava con piacevoli gorgheggi
il paesaggio tutt’intorno. Più tardi, inaspettatamente, un vociare
festoso ruppe l’atmosfera impregnata di gustosi silenzi. Una frotta
di ragazzini accorreva festosa violando lo statico biancore del manto nevoso
fino a prima immacolato.
I miei bambini! I miei bambini! Spaventapasseri riprese colore e si immerse
nei giochi dei suoi piccoli costruendo con loro i pupazzi di neve. Dall’alto
della sua gamba di legno impartiva consigli, come un vecchio che vuole trasmettere
le sue conoscenze illudendosi di essere ascoltato. I bambini battevano i cumuli
di neve con le manine arrossate dal gelo e forgiavano pupazzi contendendosi
i dettami della creatività che ciascuno di loro possedeva. Qualcuno
suggerì di staccare un bastone dallo spaventapasseri perché
le braccia del pupazzo di neve reggessero meglio, ma poi ciò non accadde
per problemi di altezza e Spaventapasseri si mantenne intatto. Emise grandi
sospiri di liberazione quando i ragazzi rientrarono alle loro case.
Presto la neve se ne andò, così come era venuta e anche i bambini
scomparvero. Spaventapasseri aspettava la primavera. Passò un lungo
lasso di tempo, il sole scaldava la terra ogni giorno di più, ma dei
bambini niente, nemmeno l‘ombra. “Bambini, ragazzi fanciulli,
amiciiiii”, urlava da mattina a sera e non capiva il perché di
quella diserzione prolungata.
In una mite giornata di sole, di quelle che ti fanno odorare i profumi intensi
ed indistinti della natura che riapre le sue braccia al mondo, di quelle che
prepotentemente irrompono nell’animo per riecheggiare sentimenti d’amore,
successe quello che non era mai accaduto prima: su quel volto di stracci raggrinziti,
un rivolo di lacrime s’insinuò fra una piega e l’altra.
Spaventapasseri era disperato, disperato, soffriva e non aveva più
voglia di vivere: tanta bellezza fuori e tanta solitudine dentro. Alzò
lo sguardo implorante verso la montagna nella speranza che qualcuno lo aiutasse.
Lentamente, con discrezione, la montagna lo abbracciò con la sua ombra
e all’infelice parve di sentirsi meglio.
In lontananza notò girovagare il cane Tober, quello spelacchiato che
gli rosicchiava sempre la gamba. Lo chiamò con voce amichevole: ”Tober,
ho bisogno di te.”
“Hai bisogno di me??? ma se fino ad ieri m’insultavi!”
“Scusami, ma le tue grattatine alla gamba non mi facevano sempre solo
solletico, poi non mi piaceva proprio quando mi pisciavi addosso.”
Il cane rimase in silenzio a riflettere. Forse Spaventapasseri non era cattivo
come sembrava. Forse era solo introverso per via della solitudine. Si vergognò
di avere pensato male di lui e di avergli procurato alcune noie.
“Che posso fare per te?”
“Vorrei che dicessi ai ragazzi di tornare qui a giocare.”
Tober alzò lo sguardo su di lui e vide che gli stracci del viso erano
bagnati. Capì la sofferenza di quello strano individuo e si ripropose
di aiutarlo. In fondo doveva farsi perdonare molte impertinenze. Gli si accovacciò
accanto e rimase a lungo ad ascoltarlo. Lo sventurato si lamentava in continuazione,
era un po’ pesante da sopportare, ma si sa, ad un’amicizia bisogna
pur saper sacrificare qualcosa.
“I bambini, i bambini, non vedo più i bambini venire al campo….”
piagnucolava Spaventapasseri. “Dimmelo, tu che vivi in mezzo a loro,
spiegami perché non vengono più a giocare al pallone….”
Il cane non voleva dirgli la verità: i bambini sarebbero tornati sempre
meno, ma non sapeva spiegargliene la ragione.
“Eh…, che possiamo fare…..stanno in casa”, rispondeva
con fare di chi sa e non vuole dire.
“Sono ammalati forse, tutti, un’epidemia.”
“No, stanno in casa, ora, a giocare…”
“Tutti insieme nella stessa casa?”
“No, ognuno a casa propria. Uno o due al massimo…”
“Come possono stare sempre in casa? Non godere dell’aria, dell’azzurro
del cielo, del verde dei prati, della vita all’aperto? Qual è
la ragione che li costringe in quattro mura, soli, loro che hanno due gambe
e sono liberi di correre, tirare calci al pallone, gareggiare con gli amici?
Soli in casa, non capisco!”
Il cane fece un’espressione preoccupata che lasciava intendere un qualcosa
di veramente grave, ma in realtà non sapeva risolvere l’enigma.
Si allontanò promettendo di fare il possibile per aiutare il suo sfortunato
interlocutore.
Per un po’ di tempo non si fece vedere al campo, ma un bel giorno Spaventapasseri
lo vide arrivare al trotto come chi si presenta per mostrare un trofeo e capì
che avrebbe portato buone nuove.
“Ho trovato, ho trovato!” gridò Tober con orgoglio. “C’è
una parola magica per chiamare i ragazzi ed io l’ho scoperta!”.
Il cane depose un biglietto ai piedi dell’amico. Spaventapasseri inclinò
per la prima volta il capo e lesse:
-www.bambini.it-