CICA LA BAIA
di Luisa Caeroni

E’ una mattina nebbiosa, la prima vera giornata autunnale di questa stagione straordinariamente benevola, ma non ci spaventa: la consueta escursione in montagna anche oggi si farà.
Percorriamo aspri sentieri, avvolti in una rorida atmosfera brumosa che tuttavia ci permette un ampio sguardo sui colori dell’autunno. Solo la scorsa settimana era ancora tutto verde ed ora, con lo sfondo grigio perla della nebbia, gli alberi e gli arbusti fanno a gara per mostrare la loro migliore tavolozza. La comitiva procede in fila indiana e ciascuno controlla attentamente dove il piede va a posarsi per evitare ruzzoloni, ma la tentazione di guardarsi intorno è forte. Aree a ceduo accolgono in unico abbraccio: faggi, carpini, tigli, castagni, frassini, querce ed ognuno presenta la propria tonalità. Ecco il giallo dei faggi maestosamente inseriti nel bosco; la terra di Siena bruciata delle foglie di betulla, precariamente appese; più su i larici, che d’estate si confondono con le altre conifere, ma ora rivendicano la loro identità trasformando l’abito estivo nelle più calde tonalità di giallo-oro e del marrone chiaro dell’ocra.
Raggiunta la meta, il gruppo si raccoglie intorno alla stufa dell’unico rifugio a disposizione degli escursionisti. Poi in allegria, si aprono gli zaini per consumare il rancio, tanto frugale quanto appetibile dopo la lunga camminata. Oggi il vino abbonda tra i commensali: si mangia e si beve in allegria, poi le chiacchiere si impregnano di politica. Siamo in un periodo difficile e tutti lo ammettono, ma le versioni sono diverse così come gli appoggi ai personaggi politici. C’è paura della recessione, di fare sacrifici a cui non si è più abituati e rabbia per gli sprechi della “casta”.
Veronica è in un angolo scostata da tutti gli altri ed io mi siedo accanto per non farla sentire sola, ma ugualmente siamo in grado di udire la ridda di previsioni al ribasso che gli amici formulano con toni medio-alti. Si distingue la voce del saccente che continua a ripetere “Abbiamo troppo benessere. I ristoranti sono sempre colmi, la gente è abituata a spendere troppo. Dobbiamo tornare indietro!”
Veronica sussurra di non aver alcun timore, perché anche una pesante recessione non ripeterebbe le condizioni della sua infanzia. Le pongo alcune domande incuriosita. Lei inizia a narrare con un profluvio di parole come non è sua consuetudine fare. L’ebbrezza dionisica dei compagni si stempera in un sottofondo di voci mescolate e, come in una nicchia immaginaria, restiamo a conversare isolate dagli altri.

“I bambini non dimenticano…”
Le mani di Veronica massaggiano nervosamente le ginocchia e il suo sguardo è fisso sul niente.
“Dopo la guerra mio padre dovette cessare l’attività di barbiere perché non aveva più clienti e con mia madre a fianco intraprese l’avventura Svizzera in cerca di un lavoro. Io e mia sorella fummo parcheggiate presso un istituto di monache.
La mia infanzia gioiosa terminò là. Era il mese di luglio, avevo sei anni e mia sorella due.
Nell’istituto ci separarono immediatamente. Vedevo Marisa solo la sera, quando in fila, a due a due ci conducevano fuori per una passeggiata. Lei però non usciva poiché, sebbene avesse due anni, non era in grado di reggersi in piedi a ragione del suo peso eccessivo. Una suora la costringeva a camminasse, ma la piccola continuava a cadere per terra e le sue ginocchia erano perennemente tumefatte. La vedevo piangere in continuazione; poi spariva fino all’indomani; non sapevo neppure dove dormisse.
In quel luogo anch'io non ero contenta. Le piccole ospiti venivano maltrattate dalle religiose e dovevano pure lavorare. Solo le nostre dita minute erano in grado di separare le setole di maiale bianche da quelle nere che poi mandavano ai laboratori per la confezione di pennelli. Avevamo una quantità da rispettare altrimenti ci castigavano. L’unica consolazione della giornata consisteva nella visita quotidiana di mia zia e di mia nonna. Quando se n’andavano io e Marisa scoppiavamo in lacrime, le suore ci picchiavano: non era permesso frignare in presenza dei parenti.
Siamo rimaste là un mese, durante il quale mia sorella si beccò il tifo. Fu ricoverata in ospedale dove vi restò per quaranta giorni. Io ebbi solo un’influenza, ma mi lasciavano sola tutto il giorno in dormitorio senza che alcuno si curasse di me.
Le monache ci infliggevano pene per i motivi più futili, soprattutto se a fine giornata non presentavamo il numero di mazzetti di setole prestabilito.
Mangiavamo malissimo, ma in tempo di guerra, era normale.
Una bimbetta, avrà avuto quattro o cinque anni, si chiamava Carla, se la faceva sempre addosso e Suor Matilde, oltre a maltrattarla, e lo vidi con i miei occhi, un giorno la portò nella stalla e la costrinse a mettere in bocca quelle che aveva nelle mutandine. La bambina urlava come un’ossessa ed io, che mi trovavo per caso nei paraggi, fuggii per non essere scoperta e punita a mia volta.
Trascorso il mese di internamento, avremmo dovuto raggiungere i nostri genitori in Svizzera, ma, sventura volle, che mia madre si ammalasse gravemente e fosse costretta a rimpatriare.
Tornammo tutti nella nostra abitazione, ma nulla fu più come prima.
Avevo sei anni e dovetti accudire mia madre e sostituirla in tutte le faccende domestiche. Fui pure obbligata ad interrompere la scuola cominciata da tre mesi per aiutare la mamma che era sempre a letto ed aveva bisogno d’assistenza continua. Nel frattempo, la nonna trovò una scuola materna per Marisa, ma io, per tre anni, non frequentai più le elementari come gli altri miei coetanei.
In quel periodo ci facevano visita le Dame della San Vincenzo, le quali, ritennero opportuno incaricare una donna che ci aiutasse nella gestione della casa. Mandarono una persona, che si definiva una nobile decaduta. Era sporca, piena di pidocchi, e ci derubò di tutto: biancheria, suppellettili, insomma ogni cosa che avesse un minimo valore. Quando la mamma si rese conto del ladrocinio di questa assistente, rinunciò alla sua collaborazione.
Poiché noi due bambine non crescessimo analfabete, una delle più titolate fra le Dame della San Vincenzo, si adoperò per sistemarci in un collegio. Mia sorella aveva cinque anni ed io ne avevo nove. Ci ritrovammo quindi ospiti di un orfanotrofio a più di 30 km dalla Città. Era il 1949.
Quando ci portarono via, mia madre, sotto il portone, urlava disperata “Le mie figlie! Portano via le mie bambine!”. Noi la guardavamo ammutolite. Non conoscevamo ancora l’avventura a cui saremmo andate incontro. Ci voltammo più volte confuse verso quel volto sofferente, finché scomparve ai nostri occhi.”

Veronica interrompe il racconto e osserva i compagni che, con i volti vizzi, iniziano a ricomporre gli zaini e prepararsi al rientro. Anche noi ci alziamo dall’angolo in cui ci troviamo e, dopo aver raccolto le nostre cose, ci mettiamo in coda sulla strada del ritorno. In discesa non è necessario risparmiare il fiato, quindi approfitto dello straordinario ricupero memoriale dell’amica e la prego di continuare il racconto.

“In questo collegio, non mi separarono da Marisa, ci lasciarono coricarci nello stesso letto, una alla testa e una ai piedi, in una camerata dove dormivano tutte le religiose. Successivamente ci inserirono nella stanza delle bambine piccole, in due letti diversi, con altre otto ospiti, tutte più giovani di me.
Le monache non mi trattavano male: io ero tranquilla, obbediente, mentre mia sorella col passare degli anni divenne sempre più ribelle. Questo le causò molte punizioni e maltrattamenti.
Suor Livia mi voleva bene, solo un volta mi diete delle zoccolate in testa, ma rimase un fatto isolato. Ricordo tuttavia che, poiché di notte bagnavo a letto, mi metteva con il sedere nudo in una delle vaschette dove ci si lavava il mattino e mi lavava con l’acqua gelida. Mi ammalai spesso. Ero magrissima e sul mio viso padroneggiava il naso, tanto che il mio nome fu sostituito con quello di pinocchio.
Andavo alle scuole elementari pubbliche e anche lì non fu facile inserirsi. Gli altri scolari evitavano la compagnia di noi bambine dell’orfanatrofio, probabilmente perché puzzavamo. Le suore ci facevano il bagno una volta al mese; la stessa tinozza, la stessa acqua per dieci bambine. La prima era fortunata perché si lavava nell’acqua pulita, ma dopo di lei ne lavavano altre nove e si può immaginare come le ultime potessero uscire ben pulite e profumate. Il rito del lavaggio avveniva in questo modo: non ci mettevano subito nella vasca, prima ci inclinavano sopra e ci lavavano la faccia, quindi ci immergevano con il resto del corpo. Il giorno del bagno ci davano anche indumenti puliti. Le mutandine viceversa ce le cambiavano ogni 15 giorni, ma tutte le sere dovevamo mostrarle alla suora che verificava che fossero pulite o meno. Per non fare brutte figure, dopo che avevo fatto i miei bisogni, non avendo altra possibilità, mi lavavo con l’acqua dello scarico, soprattutto perché non c’era mai la carta per pulirsi.
Nell’istituto eravamo in 34, divise in due gruppi: le grandi, che lavoravano tutto il giorno e le piccole, che andavano a scuola. Le orfane ritrovavano la libertà a 18 anni. Finite le scuole elementari, le più vecchie, in attesa di essere congedate, erano occupate da mattina a sera a fare nodi alle frange delle coperte e fiocchetti da applicare ai copriletto per conto di laboratori esterni. Dovevamo lavorare giornalmente una certa quantità di pezzi e se non finivamo per tempo, ci costringevano a terminare alla sera, privandoci della ricreazione. Anche le bambine che frequentavano la scuola elementare, dopo i compiti, dovevano fare i nodi alle frange e pure per loro valeva la regola del numero prestabilito.
Il lavoro delle ospiti dell’orfanatrofio era un vero e proprio sfruttamento minorile: con il ricavato le suore mantenevano altre case del medesimo ordine religioso. Ma come se ciò non bastasse le monache riscuotevano anche una retta per ogni ragazza. Nel mio caso, mio padre pagava metà quota e l’altra metà la pagava il comune di Bergamo. Per le orfane l’istituto riceveva una sovvenzione dai rispettivi comuni.
Suor Livia, la monaca più dura che comandava su tutte, era una perugina. Ci diceva sempre: “Bergamascone, merdone! Perché mi sono fatta suora, quando potevo stare a casa con mia mamma…” e spesso alzava le mani sulle piccole indifese. Suor Clementina, quella che curava le più giovani era più tenera.
Io dormivo nella cameretta delle piccine perché bagnavo sempre a letto e Suor Clementina due o tre volte per notte si alzava per farmi fare la pipì nel vaso da notte posto nel bel mezzo della camerata. Nonostante questo, alcune notti succedeva il fattaccio. Suor Livia, per punizione, mi mandava tra le bambine dell’asilo con il lenzuolo bagnato in testa e le incitava a schermirmi girando in cerchio attorno a me e cantando:
“cica la baia, cicala dre, fo denacc e fo dedre” *con un battito frenetico di mani.”

Quando Veronica smette di raccontare io sono costernata; non avrei mai immaginato tanta sofferenza nell’infanzia di questa donna che cammina dietro di me.
Il bosco si è fatto cupo, la luce di questa mattina non c’è più. Dobbiamo fare presto e raggiungere le auto prima che l’oscurità prenda il sopravvento. Ma il buio è anche dentro di me. Penso alla stupidità umana. Perché dobbiamo tornare indietro? Forse perché i nostri figli e nipoti abbiano l’opportunità di prendere zoccolate in testa?


*Dialetto bergamasco arcaic, intraducibile

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