L’UNICO BACIO
di Luisa Caeroni

Il nome che mi diede mio padre era Pallina. Ti racconto di lui perché non voglio che il ricordo si
affievolisca e vorrei garantirgli una specie di immortalità.
Immaginati una persona di statura media, apparentemente normale, ma la cui espressione del viso
te lo farebbe distinguere fra mille, anche a distanza di anni, per lo sguardo diafano e
percettibilmente remissivo. Non era un tipo loquace, spesso comunicava con cenni del capo, ma
gli occhi parlavano e dicevano molte cose.
Quando Antonio sposò mia madre aveva 26 anni e nulla conosceva della vita. Viveva sotto
l’autorità del padre che gli impediva anche la più piccola autonomia. La data del matrimonio venne
fissata prima che scattasse l’età sottoposta alla tassa del celibato promulgata dal regime.
Era consuetudine, in alcuni luoghi della pianura bergamasca, che la sposa sfilasse in corteo con
tutti i parenti fino all’ingresso della chiesa, accompagnata dalla banda.
La mattina delle nozze di Antonio, un buon numero di musicanti si recò a casa di Tina per condurla
a suon di musica alla celebrazione del matrimonio. Un corteo di parenti e vicini di casa, sfilò dal
cascinale, disperso tra i campi, lontano dalle mura del centro abitato, fino alla chiesa parrocchiale
del paese. Il corteo fece accorrere tutti coloro che volevano unirsi ai festeggiamenti ed applaudire
agli sposi. Dopo la celebrazione la sfilata divenne corposa perché infoltita dai familiari ed amici di
Antonio. I musicanti, sempre in testa, percorsero molte strade del centro per richiamare
l’attenzione sugli sposi. La gente, così attratta, usciva dalle case e applaudiva vociando “viva la
spusa - viva gli sposi” e, qualcuno approfittava per infilarsi in una bettola e sorbirsi un bicchierino
alla salute della coppia che quella mattina si era unita in matrimonio, per tradizione e per
devozione all’oste. Tutto naturalmente a carico dei genitori degli sposi.
Dopo la funzione religiosa e il giro tra le vie del centro, il corteo fece ritorno alla casa di Tina per il
banchetto. Tutti mangiarono, bevvero, cantarono e ballarono in allegria fino a tarda sera.
Frattanto nella casa di Antonio, veniva allestito il talamo nuziale dove, da quella notte in poi,
Antonio e sua moglie poterono condividere un’intimità negata in ogni altro posto e momento.
Fuori da quella camera infatti una numerosa parentela assediava il loro quieto vivere.
Col tempo la famiglia di origine si dissolse in favore della nostra e dopo pochi anni i figli divennero
nove.
Io nacqui per ultima, mi chiamarono Francesca, ma per mio padre sempre e solo Pallina.. Quando
era l’ora di andare a letto, mi caricava sulle spalle e saliva le scale cantando con una nenia tutta
sua Pallinaaaa mia Pallinaaaa ed altre parole che inventava al momento o prendeva da vecchie
filastrocche. Quest’atteggiamento amabile è da sempre impresso nella mia memoria. Per noi
bambini non c’erano carezze e baci, ma questi modi dolci bastavano per capire di essere amati.
Nella nostra casa c’erano tre stanze da letto da suddividere fra undici persone. Una era per i
maschi, una per le femmine e insieme ai genitori dormivano i più piccoli. Nel lettone con mamma
e papà ho dormito per diversi anni, almeno fino a sette o otto; i posti nella camera delle femmine
erano esauriti.
Antonio era sempre occupato nel lavoro dei campi e l’educazione dei suoi figli era affidata a
mamma e nonno Pietro, il patriarca. Mio padre doveva occuparsi solo di coltivare la terra,
effettuando il lavoro più duro senza limiti di orario. Il nonno faceva da supervisore: si recava nel
podere più volte per controllare e impartire ordini. Un vero padre-padrone. Pietro possedeva un
carattere forte e testardo. Se qualcuno gli disobbediva si arrabbiava o lo castigava. Noi nipoti ad
esempio, dovevamo andare alla messa tutte le mattine e al rosario ogni sera, altrimenti ci rifiutava
la mancia della domenica. Erano pochi spiccioli e variavano a seconda dell’età: cinque lire per i più
piccoli, fino a quindici per i più grandi, ma a noi facevano comodo. Antonio doveva sottostare alle
decisioni del padre e nella gestione della famiglia non aveva voce in capitolo. Quando il nonno
esercitava con soverchia il ruolo di capofamiglia, suo figlio lo guardava con occhi addolorati e gli si
leggeva il cruccio del cuore. Le sue spalle si infossavano, si sentiva offeso, di un’offesa intollerabile
per la vergogna della sua debolezza davanti ai figli. Tuttavia, fin dall’età adolescenziale della
ribellione, aveva imparato a lasciar perdere, convinto che vi sia più di una saggezza, quella di suo
padre impregnata di autorità e la sua, rivolta al quieto vivere.
Al contrario del nonno Pietro, mio padre ci rimproverava raramente, a volte mostrava di essere
arrabbiato, perché era prerogativa dei maschi tenere un atteggiamento burbero quando si
presentava un problema. Le ore di fatica per lui non si contavano. In estate, quando era necessaria
maggiore manodopera, iniziava all’alba e terminava di notte, potevano essere anche 14 ore di
lavoro. Nei campi era sempre il primo a piantare, ad arare, a falciare il fieno, non stava mai un
momento tranquillo; ci teneva alle sue coltivazione, infatti poteva sempre vantare di primizie
rispetto agli altri contadini. L’unico momento di relax l’aveva d’inverno, la domenica pomeriggio.
Dopo aver accudito le mucche, si recava all’osteria a conversare con gli amici con un bicchiere di
vino davanti a sé. Per ogni bicchiere successivo al primo, aumentava la loquacità e le cose da
raccontare balzavano sempre di più alla mente. Non era mai ora di tornare a casa. Mia madre,
prima di cena, mandava due dei suoi figli a cercarlo nelle osterie dove era solito sostare, per
esortarlo a rientrare per la giusta ora. Lui spesso voleva trattenersi oltre e li rimandava a casa.
Allora la mamma ricorreva a stratagemmi per convincerlo a tornare per tempo, come ad esempio:
una mucca che doveva partorire o altri motivi inventati al momento. A volte acconsentiva, oppure
capiva, anche se non era del tutto sobrio, che si trattava di un sotterfugio e non li ascoltava.
Rientrando con un bicchiere di troppo cantava:
“Laggiù nell’Arizonaaaa – terra di sogni e di chimereeeee”
e, entrato in casa, discorreva allegro abbandonando il consueto dialetto per un quasi perfetto
italiano. Abbracciava sua moglie e le sussurrava:
“Tina, la mia Tina, io ti voglio bene e non ti ho mai tradito!”
Mia madre si vergognava per queste affettuosità in nostra presenza e noi per stuzzicarlo gli
dicevamo:
“Non è vero, magari quando eri militare….”
“No, no, la mia Tina e nessun’altra” sosteneva con emozione.
In effetti, Tina era il suo perno. Al rientro dai campi le prime parole erano:
“ndo ela la mama (dov’è la mamma).”
Mio padre non possedeva un centesimo; il denaro lo gestiva il nonno e per Antonio c’era, come
per noi bambini, solo la mancia della festa. Quell’esigua somma non era sempre sufficiente a
pagare l’oste e una domenica, avendo bevuto più del solito, creò un debituccio con un amico che
si era offerto di prestargli qualcosa. Poi non sapendo come restituire il denaro, tornò a casa di
soppiatto, sottrasse un coniglio dalla gabbia e lo diede al suo creditore a saldo del debito.
Naturalmente il coniglio valeva molto di più. Quando il mattino seguente sua moglie, portando il
pasto agli animali si accorse che ce n’era uno in meno, affrontò il marito chiedendogli conto del
coniglio mancante. Mio padre fu costretto a confessare la malefatta. Tina si recò subito a
riprendere il coniglio, pagando i pochi spiccioli che Antonio doveva al compagno di osteria.
Mio padre, non disponendo di denaro, non poteva farci regali, tuttavia quattro o cinque volte
l’anno ci portava in gita con la careta (il carretto). Accomodava alcune balle di paglia sotto una
vecchia coperta per permetterci di stare seduti comodamente, caricava un po’ di biada per il
cavallo e poi via verso una straordinaria avventura. A maggio la meta era il santuario della
Madonna di Caravaggio, alla festa degli ammalati. Portavamo da casa qualcosa da mangiare e
stavamo in giro allegramente tutto il giorno. Nella fontana del santuario buttavamo sempre una
monetina che valeva per tutti noi. Era una tradizione perché potessimo ritornare l’anno
successivo. Questa giornata era di gran gioia, l’aspettavamo tutto l’anno. In gita venivano anche i
cugini, ma tutti sul carro non ci stavamo, allora qualcuno, con suo gran dispiacere, doveva
rimanere a casa. Col passare degli anni i bambini diventarono proprio numerosi, ma i più grandi
ormai cresciuti, potevano seguire il carro con la bicicletta.
“Tata fai galoppare il cavallo” dicevamo con enfasi mentre procedevamo sulla strada. Lui
sorrideva e faceva schioccare la frusta. Il cavallo, che ben conosceva questo rumore, cominciare a
galoppare e tutti sobbalzavamo sul carro al ritmo del galoppo. Era una grande emozione e
ridevamo contenti.
Un’altra gita entusiasmante era quella fatta in occasione della fiera di Sant’Alessandro a Bergamo.
La mattina, arrivati in Città, andavamo al cimitero a far visita alla sorellina, che nessuno di noi
bambini aveva conosciuto, poi ci recavamo in una cascina di parenti, dove lasciavamo il cavallo
perché mangiasse e si riposasse. A piedi raggiungevamo il luna park e, dopo una prima
esplorazione, ognuno poteva salire sulla giostra preferita. Era il momento più atteso. L’entusiasmo
ci rendeva euforici. Continuavamo a chiedere spiegazioni a nostro padre, dell’una e dell’altra
attrazione. Lui veniva contagiato dalla nostra straripante felicità ed era un comune vagare gioioso.
“Tata guarda questo…..,
“Tata perché così…..”
Non lo lasciavamo in pace quel povero Antonio. I più grandicelli udendo noi piccoli chiamarlo Tata,
ci rimproveravano sostenendo che in città, dovevamo chiamarlo papà e non tata. Noi
assentivamo, però non eravamo abituati e alla successiva domanda, anziché chiamare “papà” ad
alta voce, ci avvicinavamo a lui, lo tiravamo per la manica e sussurravamo:
“Tata, …..”
Quando arrivava l’ora del rientro, si ripercorreva mestamente la strada verso la cascina dei parenti
per riprendere il carretto e tornare a casa.
Mio padre fu un uomo meraviglioso nella sua semplicità. Io lo ricordo con infinita tenerezza e mi
dispiace pensare che non abbia potuto godere nemmeno gli ultimi anni della sua vita. A 72 anni si
ammalò gravemente. Non dimentico la sua sofferenza. Dopo una caduta dal carro gli
diagnosticarono un tumore al cervello che lo costrinse a rimanere in casa seduto sul divano. Noi
gli davamo un poco di sollievo portandolo dal sofà alla sedia e al tavolo. Qualche volta lo
accompagnavamo fuori a controllare la stalla, per farlo sentire ancora partecipe dell’attività che
fino allora aveva saputo condurre.
Ricordo l’ultimo giorno della sua vita, mi recai accanto al suo letto nella clinica dove era degente e
gli rimasi vicino in silenzio. Capii che erano le sue ultime ore. Tra noi due tutte le domande rimaste
in gola avevano col tempo trovato risposte nei comportamenti. Un’aurea di serenità anestetizzava
quel triste momento e prima di lasciare il suo capezzale, mi accostai e lo baciai sulla fronte. Forse
è stato l’unico bacio che ho dato a mio padre. Gli dissi “Ci vediamo domani”, ma egli con la mano
mi fece cenno di no. E così fu. Quella stessa notte se ne andò forse a passeggiare tra i suoi
verdeggianti campi.


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