Ogni lunedì,
alle quattro del pomeriggio, in casa Salvecchi arrivava puntuale la signorina
Ginetta. Una vecchietta minuta, con gambe così sottili da chiedersi
come potessero reggerla, il viso aggraziato tra le rughe coperte di cipria
chiara, i capelli tendenti al viola, come usano le anziane signore che vogliono
ricoprire il bianco giallastro e garantirsi un aspetto elegante. La visitatrice
manteneva rapporti di cortesia con la famiglia Salvecchi, per consolidato
affetto e per qualche piccola elargizione in natura che riceveva, perché,
nonostante volesse salvare le apparenze, non sbarcava facilmente il lunario.
In cambio lasciava notizie fresche o quasi sul trentanove, un vecchio stabile
tra centro e periferia.
L’abitazione dei Salvecchi era la più numerosa del caseggiato:
oltre a padre e madre c’erano quattro ragazzini che si rincorrevano
con l’età, ma si equiparavano in educazione, garantita dai metodi
rigidi e un po’ maneschi del padre. Occupavano due locali del secondo
piano: la camera da letto che si affacciava sulla strada, e la cucina che
dava sul pianerottolo interno. Quest’ultima riceveva luce solo da una
finestra sulle scale ed era piuttosto buia. Pesanti tende la proteggevano
dagli occhi indiscreti di chi saliva o scendeva le scale, ma rendevano l’ambiente
ancora più tenebroso.
Gli anditi d’accesso alle varie abitazioni erano dei ballatoi che nella
stagione invernale permettevano al freddo di fare da padrone. I servizi igienici
erano all’esterno: un gabinetto di un metro quadrato, il puro spazio
per la turca e, adiacente, una vasca in pietra con acqua corrente. Gli inquilini
dello stesso piano avevano l’uso in comune della latrina e del lavandino.
La famiglia Salvecchi, in cucina aveva un finto acquaio per raccogliere le
stoviglie da lavare, accanto, un secchio sempre pieno d’acqua per dissetarsi
e, in inverno, per cucinare e lavare i piatti. Sotto il lavabo, nascosto da
ante, una tinozza, bassa e larga, raccoglieva il liquame di scarico. Capitava,
non poche volte, che l’armadietto sputasse da sotto acqua melmosa, allagando
in un batter d’occhio il pavimento. Allora i presenti, in coro, urlavano:
“ol soi, ol soi’ (la tinozza, la tinozza), quasi come se un vulcano
avesse eruttato. I ragazzi, con gran disappunto, perché si schifavano
di quel compito, dovevano asciugare e svuotare il contenitore, poi, come se
non bastasse, il padre li riprendeva in malo modo, accusandoli di non aver
saputo fare il minimo controllo.
Con la bella stagione, il terrazzo del secondo piano diveniva luogo d’incontro
delle comari. Si raggruppavano a cucire nel posto più accogliente dello
stabile, per maggior luminosità e perché Carlotta Salvecchi
era benvoluta da tutti.
Belinda, la più versatile ed assidua delle inquiline, scendeva dal
terzo piano con movimenti rumorosi, per far capire alle altre che lei c’era.
Aveva un fisico giunonico, grandi occhi azzurri, invecchiati, ma ancora vispi.
I capelli, che dal castano passavano al bianco giallastro, facevano un’onda
su di un lato della fronte per abbassarsi fino a coprire l’orecchio
e poi raccogliersi in una treccia affrancata sulla nuca. Parlava spesso del
marito morto, ricordando tutte le botte prese, quando rientrava ubriaco. Il
disgraziato, dopo aver trascorso la giornata sulla strada a picconare pietre
fra mille intemperie, si fermava all’osteria a bere, poi tornava a casa
incattivito e la percuoteva senza pietà. Nei mesi di gravidanza della
seconda figlia, le dava anche calci nel ventre, ma per fortuna, affermava
Belinda orgogliosa, la bambina nacque sana. Non si vergognava neppure di narrare,
quando, rimasta vedova, dovette lasciare le sue due figlie in un collegio
per poveri, dove davano da mangiare bucce di patate. Ai suoi vecchi ricordi
frapponeva storie recenti d’altre persone e tutte le comari ascoltavano
curiose. La personalità dell’anziana donna si distingueva pure
in chiesa, per la sua voce gorgheggiante che emergeva dal coro, facendo sorridere
gli astanti per l’ostentazione della dote canterina.
Dal terzo piano scendevano anche le Cecchine: le due anziane sorelle del Cecchino.
Il Cecchino faceva il calzolaio in casa, mentre loro, ormai in pensione, si
dedicavano ai lavori domestici. I tre fratelli non erano sposati e vivevano
nella massima riservatezza, forse perché provenivano da un borgo rurale
e mal si adattavano alla vita cittadina. Le due zitelle, indossavano sempre
abiti scuri, protetti da grembiali neri e portavano sulla nuca una treccia
a crocchia, fissata con grosse forcine in bachelite. Erano abilissime nei
lavori a maglia. Ritrovandosi con altre donne, sferruzzavano perlopiù
attorno a calze di lana, usando tre o quattro aghi, con tale maestria e velocità
da lasciare tutti incantati. Parlavano poco ed ascoltavano molto. Sovente
avanzavano la proposta di pregare. Nelle loro rare esternazioni, descrivevano
i sacrifici delle operaie nella fabbrica di candele dove per anni lavorarono.
Bisognava alzarsi presto, percorrere a piedi la strada che conduceva allo
stabilimento e appostarsi davanti al portone ancora chiuso, per essere fra
le prime ad entrare. All’apertura, le operaie correvano verso i rispettivi
reparti per appropriarsi degli strumenti migliori per la produzione. Durante
il lavoro, le mani si muovevano all’impazzata: c’era da rispettare
un numero prestabilito per non essere licenziate. Le giovani più carine
erano invece impiegate nel reparto speciale, dove si sperimentavano nuove
produzioni. Indossavano camici bianchi e mascherine protettive. Il ‘padrone’,
assiduo del reparto, ogni tanto prendeva di sorpresa una ragazza e la spingeva
dietro i macchinari per le sue impennate ormonali. Difficilmente le malcapitate
erano consenzienti. Le Cecchine divenivano reticenti se l’argomento
scivolava nello scabroso, ma Belinda le riempiva di domande, tanto che nulla
rimaneva di non detto.
Dal piano sottotetto scendeva anche un’altra vecchia, con i capelli
ancora più bianchi e gialli di Belinda e il viso coperto di papule.
I bambini che si trovavano seduti sui gradini delle scale a giocare, al suo
passaggio si chiudevano le narici con le dita a molla e sghignazzavano con
una smorfia espressiva, perché il volteggiare delle larghe gonne, diffondeva
una scia maleodorante. L’anziana si univa al gruppo delle inquiline,
ma quando queste la sentivano arrivare, si scambiavano occhiate di rassegnazione:
avrebbero preferito fare a meno di quella presenza. Era una persona abituata
a maldicenze pronunciate sottovoce. Dalla vecchia, alcuna volte saliva gente
sconosciuta. Nella sua unica camera sotto il tetto praticava aborti per poi
gettare i feti nella latrina.
Al primo piano abitava anche Melania Benzoni, altra femmina rumorosa e pronta
alla battuta umoristica, ma più frequentemente al giudizio diffamatorio.
Una mangiapreti che derideva le vicine per la frequentazione della chiesa
e in ogni questione di comune interesse, dettava legge. Nei ritrovi estivi
se c’era Melania non c’era Belinda e viceversa. Melania però
era poco assidua, perché preferiva andarsene in giro per gli affari
suoi.
La signorina Ginetta, del primo piano, raramente si univa al gruppo, forse
non si sentiva a suo agio e in realtà non era ben vista dalle coinquiline.
Viveva in un monolocale, senza reddito fisso. Nessun uomo aveva coronato i
suoi sogni di gioventù, né agevolato la sua vita. La donna trascorreva
molto tempo alla finestra, a dispetto dei vicini che si sentivano osservati
nel loro entrare e uscire dal portone. Non era solo curiosità, era
il suo mestiere: ufficialmente faceva la sarta, ma ben altra era l’attività
con cui si guadagnava da vivere. La veneranda età non poteva concedere
alcun riferimento alla bellezza della gioventù, ma lei non demordeva,
continuando ad imbellettarsi e profumarsi. Neppure il rossetto trovava più
spazio su quei fili di labbra ormai rientranti. Negli anni a seguire fu costretta
ad accettare da parenti e conoscenti quello che il loro buon cuore elargiva,
per avere un minimo di sostentamento.
Nel bel mezzo delle chiacchiere delle donne sedute nel pianerottolo, arrivava
puntualmente Nina. Abitava al primo piano e la sua famiglia, rispetto al resto
della casa, poteva definirsi benestante. Il padre aveva un posto di lavoro
ai tram con salario sicuro. Nel suo appartamento fioche lampadine riuscivano
a malapena ad illuminare il metro quadrato sottostante. I pavimenti erano
tirati a cera e gli oggetti ordinatamente riposti, tuttavia nella casa aleggiava
un acre odore: un misto fra odori di cucina e di genere umano. La mamma di
Nina chiedeva spesso in prestito alle altre massaie qualcosa di utile per
cucinare, come un po’ di burro, uno spicchio d’aglio, ma era un
pretesto per soddisfare il suo spiccato desiderio di dare una controllatina
agli affari dei vicini. Nina era una giovane deficiente, con una grave forma
epilettica che buttava nel panico coloro che avevano la disavventura di esserle
vicini al sopravvenire di una crisi. Nelle sue giornate, si recava in casa
dell’una o dell’altra famiglia, ma di solito era allontanata come
un cane rognoso. A volte la tolleravano, ma nessuno desiderava la sua compagnia.
Carlotta insegnò ai suoi figli ad accettarla. Nina arrivava in silenzio
in casa Salvecchi, spesso all’ora di pranzo o di cena, apriva la porta,
raramente chiusa a chiave, senza bussare e si appostava in un angolo della
cucina. Restava in piedi, muta, con il grosso labbro inferiore bagnato di
saliva e la lingua leggermente fuori dalla bocca, osservando tutto con apparente
interesse. I Salvecchi preparavano la tavola, versavano il cibo nel piatto
e lei sempre lì, impalata, a guardare con la bava colante. Per un po’
nessuno osava dirle nulla, ma alla fine il padre Salvecchi, spazientito, la
guardava con occhi aggressivi e la invitava ad andarsene. La ragazza, scattando
come un fulmine, si allontanava. Al trentanove succedeva di udire urla disumane
di Nina, mentre i genitori la picchiavano. Nelle varie abitazioni scendeva
il silenzio e lo sgomento. Ognuno si chiedeva perché Nina meritasse
di essere punita con feroci maltrattamenti. Nei giorni successivi la giovane
non si vedeva in giro e quando ricompariva si notavano ancora i segni delle
percosse.
Nina morì in un istituto a ventitrè anni per soffocamento, non
avendo ricevuto il necessario soccorso durante l’ultima delle sue tremende
crisi epilettiche, così come successe a suo fratello, molto più
grave di lei, pochi anni prima. Col tempo i Salvecchi abbandonarono il trentanove
per una casa migliore, ma non scordarono mai gli aspetti tragici e pittoreschi
della loro casa natale.