IL TRENTANOVE
di Luisa Caeroni

Ogni lunedì, alle quattro del pomeriggio, in casa Salvecchi arrivava puntuale la signorina Ginetta. Una vecchietta minuta, con gambe così sottili da chiedersi come potessero reggerla, il viso aggraziato tra le rughe coperte di cipria chiara, i capelli tendenti al viola, come usano le anziane signore che vogliono ricoprire il bianco giallastro e garantirsi un aspetto elegante. La visitatrice manteneva rapporti di cortesia con la famiglia Salvecchi, per consolidato affetto e per qualche piccola elargizione in natura che riceveva, perché, nonostante volesse salvare le apparenze, non sbarcava facilmente il lunario. In cambio lasciava notizie fresche o quasi sul trentanove, un vecchio stabile tra centro e periferia.
L’abitazione dei Salvecchi era la più numerosa del caseggiato: oltre a padre e madre c’erano quattro ragazzini che si rincorrevano con l’età, ma si equiparavano in educazione, garantita dai metodi rigidi e un po’ maneschi del padre. Occupavano due locali del secondo piano: la camera da letto che si affacciava sulla strada, e la cucina che dava sul pianerottolo interno. Quest’ultima riceveva luce solo da una finestra sulle scale ed era piuttosto buia. Pesanti tende la proteggevano dagli occhi indiscreti di chi saliva o scendeva le scale, ma rendevano l’ambiente ancora più tenebroso.
Gli anditi d’accesso alle varie abitazioni erano dei ballatoi che nella stagione invernale permettevano al freddo di fare da padrone. I servizi igienici erano all’esterno: un gabinetto di un metro quadrato, il puro spazio per la turca e, adiacente, una vasca in pietra con acqua corrente. Gli inquilini dello stesso piano avevano l’uso in comune della latrina e del lavandino. La famiglia Salvecchi, in cucina aveva un finto acquaio per raccogliere le stoviglie da lavare, accanto, un secchio sempre pieno d’acqua per dissetarsi e, in inverno, per cucinare e lavare i piatti. Sotto il lavabo, nascosto da ante, una tinozza, bassa e larga, raccoglieva il liquame di scarico. Capitava, non poche volte, che l’armadietto sputasse da sotto acqua melmosa, allagando in un batter d’occhio il pavimento. Allora i presenti, in coro, urlavano: “ol soi, ol soi’ (la tinozza, la tinozza), quasi come se un vulcano avesse eruttato. I ragazzi, con gran disappunto, perché si schifavano di quel compito, dovevano asciugare e svuotare il contenitore, poi, come se non bastasse, il padre li riprendeva in malo modo, accusandoli di non aver saputo fare il minimo controllo.
Con la bella stagione, il terrazzo del secondo piano diveniva luogo d’incontro delle comari. Si raggruppavano a cucire nel posto più accogliente dello stabile, per maggior luminosità e perché Carlotta Salvecchi era benvoluta da tutti.
Belinda, la più versatile ed assidua delle inquiline, scendeva dal terzo piano con movimenti rumorosi, per far capire alle altre che lei c’era. Aveva un fisico giunonico, grandi occhi azzurri, invecchiati, ma ancora vispi. I capelli, che dal castano passavano al bianco giallastro, facevano un’onda su di un lato della fronte per abbassarsi fino a coprire l’orecchio e poi raccogliersi in una treccia affrancata sulla nuca. Parlava spesso del marito morto, ricordando tutte le botte prese, quando rientrava ubriaco. Il disgraziato, dopo aver trascorso la giornata sulla strada a picconare pietre fra mille intemperie, si fermava all’osteria a bere, poi tornava a casa incattivito e la percuoteva senza pietà. Nei mesi di gravidanza della seconda figlia, le dava anche calci nel ventre, ma per fortuna, affermava Belinda orgogliosa, la bambina nacque sana. Non si vergognava neppure di narrare, quando, rimasta vedova, dovette lasciare le sue due figlie in un collegio per poveri, dove davano da mangiare bucce di patate. Ai suoi vecchi ricordi frapponeva storie recenti d’altre persone e tutte le comari ascoltavano curiose. La personalità dell’anziana donna si distingueva pure in chiesa, per la sua voce gorgheggiante che emergeva dal coro, facendo sorridere gli astanti per l’ostentazione della dote canterina.
Dal terzo piano scendevano anche le Cecchine: le due anziane sorelle del Cecchino. Il Cecchino faceva il calzolaio in casa, mentre loro, ormai in pensione, si dedicavano ai lavori domestici. I tre fratelli non erano sposati e vivevano nella massima riservatezza, forse perché provenivano da un borgo rurale e mal si adattavano alla vita cittadina. Le due zitelle, indossavano sempre abiti scuri, protetti da grembiali neri e portavano sulla nuca una treccia a crocchia, fissata con grosse forcine in bachelite. Erano abilissime nei lavori a maglia. Ritrovandosi con altre donne, sferruzzavano perlopiù attorno a calze di lana, usando tre o quattro aghi, con tale maestria e velocità da lasciare tutti incantati. Parlavano poco ed ascoltavano molto. Sovente avanzavano la proposta di pregare. Nelle loro rare esternazioni, descrivevano i sacrifici delle operaie nella fabbrica di candele dove per anni lavorarono. Bisognava alzarsi presto, percorrere a piedi la strada che conduceva allo stabilimento e appostarsi davanti al portone ancora chiuso, per essere fra le prime ad entrare. All’apertura, le operaie correvano verso i rispettivi reparti per appropriarsi degli strumenti migliori per la produzione. Durante il lavoro, le mani si muovevano all’impazzata: c’era da rispettare un numero prestabilito per non essere licenziate. Le giovani più carine erano invece impiegate nel reparto speciale, dove si sperimentavano nuove produzioni. Indossavano camici bianchi e mascherine protettive. Il ‘padrone’, assiduo del reparto, ogni tanto prendeva di sorpresa una ragazza e la spingeva dietro i macchinari per le sue impennate ormonali. Difficilmente le malcapitate erano consenzienti. Le Cecchine divenivano reticenti se l’argomento scivolava nello scabroso, ma Belinda le riempiva di domande, tanto che nulla rimaneva di non detto.
Dal piano sottotetto scendeva anche un’altra vecchia, con i capelli ancora più bianchi e gialli di Belinda e il viso coperto di papule. I bambini che si trovavano seduti sui gradini delle scale a giocare, al suo passaggio si chiudevano le narici con le dita a molla e sghignazzavano con una smorfia espressiva, perché il volteggiare delle larghe gonne, diffondeva una scia maleodorante. L’anziana si univa al gruppo delle inquiline, ma quando queste la sentivano arrivare, si scambiavano occhiate di rassegnazione: avrebbero preferito fare a meno di quella presenza. Era una persona abituata a maldicenze pronunciate sottovoce. Dalla vecchia, alcuna volte saliva gente sconosciuta. Nella sua unica camera sotto il tetto praticava aborti per poi gettare i feti nella latrina.
Al primo piano abitava anche Melania Benzoni, altra femmina rumorosa e pronta alla battuta umoristica, ma più frequentemente al giudizio diffamatorio. Una mangiapreti che derideva le vicine per la frequentazione della chiesa e in ogni questione di comune interesse, dettava legge. Nei ritrovi estivi se c’era Melania non c’era Belinda e viceversa. Melania però era poco assidua, perché preferiva andarsene in giro per gli affari suoi.
La signorina Ginetta, del primo piano, raramente si univa al gruppo, forse non si sentiva a suo agio e in realtà non era ben vista dalle coinquiline. Viveva in un monolocale, senza reddito fisso. Nessun uomo aveva coronato i suoi sogni di gioventù, né agevolato la sua vita. La donna trascorreva molto tempo alla finestra, a dispetto dei vicini che si sentivano osservati nel loro entrare e uscire dal portone. Non era solo curiosità, era il suo mestiere: ufficialmente faceva la sarta, ma ben altra era l’attività con cui si guadagnava da vivere. La veneranda età non poteva concedere alcun riferimento alla bellezza della gioventù, ma lei non demordeva, continuando ad imbellettarsi e profumarsi. Neppure il rossetto trovava più spazio su quei fili di labbra ormai rientranti. Negli anni a seguire fu costretta ad accettare da parenti e conoscenti quello che il loro buon cuore elargiva, per avere un minimo di sostentamento.
Nel bel mezzo delle chiacchiere delle donne sedute nel pianerottolo, arrivava puntualmente Nina. Abitava al primo piano e la sua famiglia, rispetto al resto della casa, poteva definirsi benestante. Il padre aveva un posto di lavoro ai tram con salario sicuro. Nel suo appartamento fioche lampadine riuscivano a malapena ad illuminare il metro quadrato sottostante. I pavimenti erano tirati a cera e gli oggetti ordinatamente riposti, tuttavia nella casa aleggiava un acre odore: un misto fra odori di cucina e di genere umano. La mamma di Nina chiedeva spesso in prestito alle altre massaie qualcosa di utile per cucinare, come un po’ di burro, uno spicchio d’aglio, ma era un pretesto per soddisfare il suo spiccato desiderio di dare una controllatina agli affari dei vicini. Nina era una giovane deficiente, con una grave forma epilettica che buttava nel panico coloro che avevano la disavventura di esserle vicini al sopravvenire di una crisi. Nelle sue giornate, si recava in casa dell’una o dell’altra famiglia, ma di solito era allontanata come un cane rognoso. A volte la tolleravano, ma nessuno desiderava la sua compagnia. Carlotta insegnò ai suoi figli ad accettarla. Nina arrivava in silenzio in casa Salvecchi, spesso all’ora di pranzo o di cena, apriva la porta, raramente chiusa a chiave, senza bussare e si appostava in un angolo della cucina. Restava in piedi, muta, con il grosso labbro inferiore bagnato di saliva e la lingua leggermente fuori dalla bocca, osservando tutto con apparente interesse. I Salvecchi preparavano la tavola, versavano il cibo nel piatto e lei sempre lì, impalata, a guardare con la bava colante. Per un po’ nessuno osava dirle nulla, ma alla fine il padre Salvecchi, spazientito, la guardava con occhi aggressivi e la invitava ad andarsene. La ragazza, scattando come un fulmine, si allontanava. Al trentanove succedeva di udire urla disumane di Nina, mentre i genitori la picchiavano. Nelle varie abitazioni scendeva il silenzio e lo sgomento. Ognuno si chiedeva perché Nina meritasse di essere punita con feroci maltrattamenti. Nei giorni successivi la giovane non si vedeva in giro e quando ricompariva si notavano ancora i segni delle percosse.
Nina morì in un istituto a ventitrè anni per soffocamento, non avendo ricevuto il necessario soccorso durante l’ultima delle sue tremende crisi epilettiche, così come successe a suo fratello, molto più grave di lei, pochi anni prima. Col tempo i Salvecchi abbandonarono il trentanove per una casa migliore, ma non scordarono mai gli aspetti tragici e pittoreschi della loro casa natale.


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