Con il
proposito di spolverare laddove la mano non arriva mai, rinvenni vecchie cassette
sonore che in tempi lontani e in momenti di ritrovata precisione, avevo riposto
in una scansia. Una di queste cassette riportava la scritta Beethoven con
voci in sottofondo. Incuriosita mi affrettai ad inserire il nastro in un vecchio
lettore non ancora pronto per la discarica e mi misi in ascolto.
Durante la riproduzione della musica udii per diversi minuti i miei genitori
conversare tra di loro e ripetuti piagnucolii di un bambino. Mi ricordai che
mio padre amava registrare la musica classica o le opere liriche dalle trasmissioni
radiofoniche e uno squarcio su quei tempi così lontani mi fece commuovere.
Le parole non si distinguevano, neppure con l’orecchio appiccicato al
riproduttore, ma dal tono pacato delle voci dialoganti si intuiva la qualità
della loro vita condivisa. Affermare che da un interloquire con parole indistinguibili
si possa captare il pregio di un’unione consolidata, potrebbe sembrare
esagerato. Non è così: succede spesso che il tono della voce
preluda il contenuto del discorso, anche se non sappiamo approfittare della
magia dell’intuizione.
Comunque sia, queste voci mi riempierono di turbamento: una gioia mista a
tristezza per familiari che ho tanto amato. Così in un momento ricomposi
il puzzle. I vagiti del bambino erano di mio figlio che veniva loro affidato
nelle mie ore di lavoro..
La sera rincasavo a lunghi passi sapendo che i miei genitori mi attendevano
con ansia. A volte entravo di soppiatto e sostavo qualche secondo dietro la
porta ad origliare, poi al momento buono: “Cettete”, con un balzo
mi addentravo nella stanza. Nonni e nipotino ridevano felici: ”Ecco
la mamma, la mamma!”
Quando ero fuori per lavoro, si occupavano i nonni di Andrea. L’impegno
maggiore toccava alla nonna, ma anche il nonno era prezioso supporto, nonostante
la sua ormai cronica mancanza di respiro. Per tenere tranquillo il bimbo,
raccontava, con tutta l’enfasi di cui era capace, storielle inventate
lì per lì, oppure inseriva una cassetta nello stereo e scandiva
con le mani il ritmo della musica. Se invece le forze scarseggiavano, prendeva
un libro di favole e leggeva. Quante volte li avevo pescati in quella simbiosi!
Il nonno con la sua voce da attore protagonista e Andrea, attento a non perdere
l’epilogo della fiaba.
-Padre, io ti ricordo così. Appoggiato con entrambe le braccia al tavolo,
con i tuoi capelli ancora folti, ma tutti bianchi; con i tuoi grandi occhi
azzurri che il tempo smorzava nella lucentezza senza attenuarne l’espressività;
con il tuo respiro difficile; con la tua voce cavernosa che imponeva attenzione;
con le tue mani scarne che mi accarezzavano la nuca; con il tuo sorriso bonario;
con la tua voglia di affetto; con il tuo desiderio di distribuire a tutti
un po’ di amore.
Padre, io voglio ricordarti così, com’eri negli ultimi anni della
tua vita. Quanto non fu facile la tua esistenza! Ma ora è tardi per
poterti testimoniare.-
Giuseppe
era un uomo originale, con una personalità vigorosa ed estroversa.
Non voleva essere secondo a nessuno. Al momento giusto sapeva intraprendere
rapporti di simpatia e amicizia con chiunque. Era capace di grandi inventive
che realizzava concretamente, ma anche di considerevoli negligenze. Quando
una cosa lo interessava, sapeva essere il primo, come era capace di sottrarsi
a responsabilità in situazioni a cui non voleva dare il giusto peso.
Fin verso l’età matura succedeva che si lasciasse prendere dall’ira
in modo incontenibile, ma subito dopo riversava sulla persona colpita una
cascata di affetto e di comprensione. Trascinava indifferentemente il suo
prossimo nella gioia e nel dolore. I suoi figli da piccoli lo temevano e non
riuscivano a capire la profondità del suo affetto; da adulti non seppero
apprezzare appieno la grandezza del suo animo.
Giuseppe nacque quando ancora la prima guerra mondiale devastava i corpi degli
uomini al fronte, gli animi dei sopravvissuti e le già scarse risorse
della gente comune. Sua madre si era spostata, dalla pianura mantovana, dove
era nata, per lavorare in una delle numerose fabbriche tessili della Valle
Seriana. Qui incontrò il futuro marito e padre dei suoi figli. Era
una donna dolce e taciturna, piccola e gracile. La sua salute si rivelò
presto precaria per una grave cardiopatia manifestatasi dopo pochi anni di
matrimonio. Con il passare del tempo, molte amarezze peggiorarono le sue condizioni
fisiche, finché prematuramente e lasciando uno struggente vuoto nei
suoi figli, abbandonò questo mondo.
Il padre di Giuseppe era al contrario un uomo duro, abituato a dirigere le
operaie nella filande, obbligato per la mansione a lasciare da parte ogni
tipo di comprensione per gli altri. La durezza del suo ruolo la replicava
a casa con i figli: imponeva la sua autorità senza la minima indulgenza.
Erano tempi in cui si riteneva che l’uso del bastone fosse efficace
e non si conosceva la contropartita della carota.
“C’erano sempre botte a casa mia. Mio padre mi picchiava anche
quando mangiavo in fretta, ma se mangiavo lentamente, sosteneva che uno pigro
a mangiare è anche pigro a lavorare e mi picchiava. Quante botte ho
preso!. Di notte, mentre i miei fratelli ed io dormivamo, faceva bliz rivoltando
all’improvviso le coperte. Per noi non c’era mai un sorriso, un
gesto di tenerezza, mai.”
Così Giuseppe racconterà dell’atmosfera che regnava in
casa sua.
Giuseppe era il quarto nato dopo due maschi ed una femmina. La bambina era
adorata dai genitori, perché femmina dolce e mansueta e perché
andò manifestando fin dai primi anni una genialità da essere
considerata un vero e proprio fenomeno. Mio padre aveva otto anni quando un
luttuoso avvenimento trascinò la sua casa nella disperazione e introdusse
una notevole recrudescenza nel carattere aspro del papà e silenzioso
della mamma. In un pomeriggio caldo ed assolato un carro schiacciava sotto
le ruote la ragazzina che, pochi istanti prima, vi si trovava sopra, senza
che alcuno potesse ben definire la dinamica dell’incidente. La figlia
prediletta dei Gualtieri era stata sottratta tragicamente ad una famiglia
che solo attraverso lei riusciva a trasudare gocce d’amore.
Dopo questo dramma, la vita dei fratelli Gualtieri divenne insostenibile,
tanto che a turno progettarono la fuga. Il primogenito, dal carattere pacato
e sottomesso, non ebbe mai la forza di scappare. Il secondo figlio, a 11 anni
fuggì verso Milano da parenti che gestivano un’officina per la
riparazione di motori. Dopo che i genitori l’ebbero ripescato, ottenne
di vivere dagli zii per imparare il mestiere di meccanico.
Giuseppe aveva soli nove anni quando decise di emulare il fratello. Preparò
di nascosto un fagotto con qualcosa da mangiare e di buon mattino prese la
via della campagna. La sua fuga non durò a lungo. I genitori mobilitarono
tutti per ritrovare il piccolo scomparso e verso sera lo ripresero a 15 chilometri
di distanza, sulla strada per Milano che era la direttrice passante fuori
casa. Al rientro il padre lo riempì di botte, ma a lui dolse soprattutto
il sapore amaro della sconfitta.
Il ragazzo era di natura ribelle e le percosse non riuscirono mai a piegarlo.
Sua madre cercava di proteggerlo per risparmiargli un po’ di malmenate
e umiliazioni, ma l’irrequietezza del figlio non facilitava il suo compito
di mediatrice.
Il giorno di chiusura delle scuole è sempre una gran festa per i ragazzi,
nelle vacanze si pensa solo al gioco e a godersi la libertà. Quella
volta Giuseppe non stava più nei panni dalla gioia; aveva terminato
con successo gli esami di quinta elementare ed era stato premiato con un bel
paio di scarpe nuove. Due eventi insieme non di poco conto: il termine della
scuola e un gesto d’amore di suo padre. Le scarpe bene o male le aveva
sempre avute, ma a quella dimostrazione d’affetto di suo padre non c’era
abituato. Per la prima volta gli si era avvicinato con confidenza e lo aveva
elogiato.
“Sei stato promosso con buoni voti e questo è un bel paio di
scarpe per te.”
Il ragazzino non seppe ringraziare in modo adeguato, anche se gli sarebbe
piaciuto. Con la testa bassa e rosso in viso per l’emozione, prese le
scarpe e balbettò:
“Vado all’oratorio a mostrarle ai miei amici”.
L’uomo si rabbuiò com’era suo costume:
“Ti raccomando, non rovinarle, se torni con le scarpe sciupate facciamo
i conti!”
Giuseppe si presentò ai suoi compagni di gioco ostentando con orgoglio
quanto erano belle le scarpe che aveva ai piedi, poi, come sempre, iniziò
a giocare a football: nel ruolo di attaccante non c’era nessuno più
bravo di lui.
Quel pomeriggio i suoi compagni si attardarono nella gara; il buio era ancora
lontano quando Giuseppe si accorse che a quell’ora avrebbe dovuto essere
già a casa. Sulla via del ritorno si accorse con disappunto che una
delle due scarpe aveva una scucitura su di un lato. Fu colto dalla disperazione.
Come poteva ritornare da suo padre e nascondere quello scempio. Quanto sarebbe
stato picchiato per quella disgraziata circostanza. Meditò sul da farsi
e, arrivato davanti a casa, decise di non varcare quella porta. Proseguì
verso la campagna. I suoi l’attesero inutilmente.
Lo cercarono la notte e il giorno successivo, ma non rinvenendo traccia del
ragazzo i genitori si misero veramente in allarme e chiesero ai carabinieri
di intervenire nelle ricerche. Non avrebbero dovuto cercare molto lontano
perché il fuggiasco era nascosto in un pollaio a pochi passi da casa.
Dopo la seconda notte, preso dai morsi della fame e intirizzito dal freddo
per i pochi indumenti indossati, ritornò sui suoi passi. All’uscio
di casa il ragazzo si affacciò con il sorriso di chi fa buon viso a
cattivo gioco; di chi non può mostrare di essere battuto e sa che l’aspettano
cose turpi. Si era rassegnato ad affrontare le ire del padre, ma contrariamente
al previsto, nessuno lo aggredì. Gli occhi della mamma erano comprensibilmente
tristi e inaspettata la tenue reazione del padre. Giuseppe maturò così
l’idea di aver tanto spaventato i genitori con la sua fuga, da spingerli
ad essere più comprensivi nei suoi riguardi. Solo il fratello maggiore,
seminascosto dietro l’angolo della credenza, aveva gli occhi sbarrati
e persi nel vuoto. Il piccolo gli fece un risolino di convenienza senza aspettarsi
alcuna reazione; poi si accorse che quegli occhi inebetiti erano anche un
po’ arrossati, come quelli di chi ha appena smesso di piangere. Non
poteva certo immaginare il significato di quelle lacrime e nemmeno si pose
il problema, tanto era la confusione in quel momento.
La sera mangiò abbondantemente e si coricò con il pensiero che
gli era proprio andata bene: non si sarebbe mai aspettato tanta premura dopo
una marachella così grossa. Aveva dato una bella lezione a suo padre!
Si addormentò e dormì profondamente.
Il mattino seguente fu svegliato di buon’ora. Gli ordinarono di lavarsi
con cura e di indossare gli abiti migliori. Giuseppe non chiese spiegazioni
ed obbedì. Il padre impugnò una valigia dove erano risposti
molti indumenti del figlio ribelle, preparata chissà quando e gli disse:
“Saluta tua madre e tuo fratello.”
“Perché?” chiese impallidendo il ragazzino.
“Ti aspetta San Carlo.”
“San Carlo?”
“Si, San Carlo. L’hai voluto tu.”
San Carlo era chiamato collegio, ma si trattava di un riformatorio. Era un
complesso sorto per volontà di un sacerdote che nei primi dell’800
andava raccogliendo per strada i ragazzi senza famiglia e li teneva in casa
propria. Poi alcuni benefattori permisero la costruzione e il funzionamento
di una grossa struttura. Così San Carlo divenne un centro di raccolta
di ragazzi abbandonati e traviati. I fanciulli erano educati ai principi della
religione e veniva loro insegnato a leggere, scrivere e fare di conto. Apprendevano
pure lavori artigianali come il calzolaio, il fabbro, il falegname, il sarto.
Con gli anni però divenne un vero e proprio collegio di rieducazione.
Era consuetudine dei genitori, quando i figli combinavano qualche guaio, minacciarli:
“attento, ti mando a San Carlo”. Oggi quel collegio non esiste
più. In quel luogo sorge un centro residenziale di prestigio il cui
ingresso, mantenuto nella struttura originale, riporta la vacua epigrafe ‘porta
quae vitae accipit patriam petentes omnes’.
Giuseppe aveva undici anni e mezzo quando fu buttato nella peggiore mischia
per sette lunghi interminabili anni. Egli nominerà più volte
quel posto ai suoi figli. “Sette anni sono stato a San Carlo e quello
che ho subito là dentro non si può raccontare”. Essi non
capivano, la cosa non li riguardava. Non potevano immaginare che ‘là
dentro’ qualcuno fu stuprato e piegato nell’orgoglio a suon di
percosse. Non potevano immaginare come, umiliazioni e maltrattamenti inturgidirono
il carattere di un bambino di undici anni e mezzo. Non potevano immaginare
attraverso quali tormenti in quella giovane vita si delineò in modo
indelebile la mappa del suo divenire uomo.