CHI
È L’ULTIMO
di Luisa Caeroni
Sulle sedie di vecchia fattura alternate a poltroncine dal tessuto démodé
piuttosto scolorito,
alcune persone stanno attendendo pacifiche il proprio turno, con la rilassatezza
di chi sa che, come
paziente, non c’è da avere fretta. Un promotore farmaceutico,
riconoscibile dalla classica borsa in
cuoio marrone, panciuta per via dei campionari pronti per essere immessi
sul mercato, che
regaleranno al medico una vacanza e al malato esiti non garantiti, siede
su di una bassa poltrona
nell’angolo della stanza. C’è una signora anzianotta
con ciabatte estive, nonostante la stagione
freddolina, forse perché nelle scarpe i suoi piedi gonfi dolgono
troppo. Accanto a me un anziano
continua a tossire ed io giro opportunamente la testa dalla parte opposta,
dove è seduta mia
madre. Sul lato di fronte vedo una nonna, abbigliata e truccata secondo
i gusti dei tempi della sua
gioventù e la sua nipotina. La piccola, che avrà sì
e no cinque anni, continua a sfregarsi la testolina
riccia. La nonna la riprende: “Smettila di grattarti la testa!”,
ma la nipote ignora la
raccomandazione e continua a ficcarsi le manine tra i capelli con movimenti
veloci che premono
sulla cute. “Smettila di grattarti la testa!”, replica infastidita
la donna, che non posso definire
anziana nel rispetto dei suoi intenti rigorosamente rivolti a mantenersi
giovane. “Ho i pidocchi”
risponde la piccola a voce alta. “Come? “ rimbecca la nonna
fingendo sbalordimento, visto che in
famiglia la cosa deve essere nota. “Ho i pidocchi” ripete la
piccola con tono ancora più alto e con
inflessione cantilenante, tanto da rendere la frase maggiormente comprensibile.
La donna si
colorisce in volto e muove imbarazzata il sedere sulla sedia. Poi parla
sottovoce alla nipote
avvicinando il viso all’orecchio della bambina. I presenti fingono
noncuranza benché, salvo possibili
deficit uditivi, tutti dovrebbero aver sentito. Io trattengo a stento un
piccolo sorriso e volgo lo
sguardo vagante nel nulla verso la finestra.
Il silenzio è rotto dalla porta che si apre per lasciar comparire
un uomo di mezza età con scarsa
peluria in testa e con abbondante adipe sul ventre. “Chi è
l’ultimo?” esordisce avanzando al centro
della sala d’aspetto. Nessuno risponde. Le persone affondate nel pensiero
dei propri malesseri, da
riferire nei minimi particolari al medico, non lo ascoltano, continuano
imperterrite a simulare la
lettura della rivista, vecchia di settimane, che hanno trovato sul tavolino
in mezzo alla stanza,
oppure fissano le punte delle scarpe con le palpebre abbassate. ”Chi
è l’ultimo?” ripete il
rompipalle che basterebbe si mettesse a sedere e controllasse chi arriverà
dopo di lui. Mi verrebbe
voglia di rispondergli in modo ironico: “L’ultimo è lei
perché è entrato adesso.” Mentre mi sorride
questa idea, mia madre, alza appena l’indice della mano destra e con
voce flebile dice : “io”.
Divento paonazza e mi affretto a precisare che non è lei l’ultima
perché dopo di noi è entrato
ancora qualcuno, poi la guardo interrogandola con occhi felini. Lei mi fa
un timido sorriso e,
sempre con movimenti accennati, apre le mani appoggiate sulle ginocchia
senza spostare i polsi e
il suo sguardo sperduto e ingenuo sopisce ogni mia irritazione. All’uscita
la incalzo con domande
sul suo inappropriato “io” e lei, con disarmante freschezza,
spiega: “Rispundia nisu”.
Ines nacque quando la nazione era impegnata nella prima guerra mondiale.
Gli uomini
combattevano al fronte mentre le donne e i vecchi reggevano le sorti delle
famiglie. La guerra non
sarebbe continuata ancora a lungo, ma al momento si sapeva solo di ragazzi
che vi lasciavano le
penne e di quelli che tornavano con mutilazioni, per una causa non sempre
comprensibile.
Era la terza di sei fratelli viventi perché alcuni non sopravvissero
al tifo o ad altre malattie che
allora disseminavano la morte fra i neonati. I figli tuttavia nascevano
numerosi, nonostante le
scarse risorse economiche. Si diceva che fossero una benedizione di Dio
e, non si diceva, ma si
sperava, sarebbero stati presto braccia forti per il lavoro.
In quel periodo molte famiglie pativano la fame. Non nella casa di Ines
perché c’erano almeno gli
ortaggi e la fattoria a volte permetteva qualcosa in più. Non sempre
però. Succedeva anche che ci
fosse solo polenta. Ancora oggi si ricorda il detto “polenta e pica
so”, che significa appoggiare la
propria fetta di polenta su un cotechino messo in comune al centro della
tavola per assaporarne il
gusto. Eppure Ines riusciva spesso a ottenere una vivanda speciale perché
la sua struttura esile e il
suo scarso interesse per il cibo costringevano i genitori a favorirla. Certo
non poteva essere un
granché, visto che anni dopo, nei primi giorni di matrimonio, vedendo
il marito mangiare due
uova, una dopo l’altra, rimase esterrefatta per l’ingordigia.
Ines crebbe nella sua gracilità mite e introversa. Apprezzava la
costante animazione in famiglia:
oltre a fratelli e cugini c’erano sempre amici che preferivano quella
casa alla propria, forse per la
vita all’aria aperta che in Città non era da tutti. La presenza
di molti ragazzi e ragazze, cugini fra
loro, permetteva un andirivieni straordinario in quella dimora: ogni amico
era accolto come un
fratello. Le domeniche d’estate erano particolarmente festose. Sotto
il porticato si suonava la
fisarmonica, si ballava, si cantava, così maschi e femmine intrecciavano
rapporti di amicizia e
familiarità semplici e sereni, prerogativa non comune nel tempo in
cui i germogli dell’ideologia
fascista cominciavano a manifestare le loro nefaste qualità. La famiglia
copriva con il suo grande
amoroso mantello, quello sfondo di miserie umane che fuori era visualizzato
a schermo intero.
Questo nucleo familiare era protetto, disconnesso dalla rete di viltà
e compromessi che, per
convinzione o fame, si osservava nei comportamenti di buona parte della
collettività. Ines ciò
nonostante non riusciva a socializzare, se ne stava in disparte, osservava,
pensava, ma gli
argomenti per conversare proprio non uscivano dalla sua bocca, così
si ritraeva desolata nel
proprio eremo mentale. Come lei stessa si definì più tardi,
era una “selvatica”. Soffriva per questo
suo modo d’essere, avrebbe preferito ridere e scherzare come gli altri,
ma era troppo difficile.
Quando andava a dormire, in quella camera sotto il tetto, dove fra un coppo
e l’altro
s’intravvedevano le stelle, si sentiva ancora più misera per
il disturbo che poteva arrecare alle
compagne di letto, se le succedeva di urinare nel sonno. Allora non possedevano
un letto proprio.
Nella camera delle femmine avevano lettiere arrangiate con materassi di
stoppia dove dormivano
in tre o quattro, sorelle, cugine ed eventuali ospiti, alla testa e ai piedi.
A letto, prima di
appisolarsi, magari litigavano per il possesso delle coperte o per lo spazio
occupato, ma spesso
giocavano a fare la bicicletta unendo le piante dei piedi e ridendo a più
non posso per il solletico.
I piccoli non possedevano giocattoli, dovevano sempre inventare qualcosa
per divertirsi e la loro
fantasia era fervida.
L’inverno però era freddo, molto freddo, allora si accovacciavano
vicini e zitti zitti si
addormentavano. Il mattino l’acqua nel catino era gelata, come l’urina
nel vaso da notte e gli
inverni erano lunghi, non passavano mai.
All’arrivo della bella stagione Ines, ormai grandicella, soleva sfruttare
il dolce declivio del prato
fuori di casa per sdraiarsi sull’erba e crogiolarsi in quella sognante
felicità propria delle
adolescenti. Guardava il cielo con gli occhi socchiusi per non essere abbagliata
dalla troppa luce,
oppure fissava le foglie degli alberi di cachi, mentre i pensieri scorrevano
veloci e meravigliosi. I
fratelli e i cugini giocavano poco distanti, si accapigliavano, si arrampicavano
sugli alberi, ma Ines
continuava a sognare il suo futuro sovrapponendolo a una bella favola. Non
parlava con alcuno dei
suoi sogni, così gli adulti non avrebbero violato le sue aspettative
traducendole in difficile realtà.
Certo a lei non sarebbe mai toccato di andare a servizio dai “padroni”
come la cugina più grande,
la quale dalla mattina alla sera compieva i lavori più umili e di
notte si doveva barricare in camera
perché poteva capitare che il padrone, sotto l’effetto di droghe,
la insidiasse. La sfortunata si
lamentava spesso per le ingiustizie costretta a subire, ma poi si rassegnava
perché le avevano
insegnato che in paradiso tutti saremo uguali, anzi, gli ultimi saranno
i primi, non credendo alla
padrona che un giorno sentenziò: “In paradiso voi poveri sarete
lo sgabello di noi ricchi”.
Ines immaginava per sé un destino migliore: i suoi genitori non avrebbero
mai mandata una loro
figlia a servizio, erano molto contrari, piuttosto sarebbero morti di fame.
Era graziosa Ines, non se ne rendeva conto, anzi si vergognava perché
il colore bruno della pelle,
sempre esposta al sole, la etichettava come contadina.
Trascorse buona parte della sua giovinezza in famiglia, lavorando la terra
insieme ai genitori e
questo le permise di restare fuori dal gorgheggiamento degli altri giovani,
assecondando il suo
temperamento selvatico. Poi arrivò la seconda guerra mondiale e con
essa il suo principe azzurro
che la portò tra le montagne dove i partigiani potevano meglio nascondersi.
Iniziò così la sua non
facile vita di donna e di madre.
“Beati gli ultimi” A lei non dispiaceva di essere l’ultima.
Questo ruolo, a suo dire, le toccava
perché gli altri venivano sempre prima. Eppure le qualità
dell’animo, le capacità intellettive e un
intuito straordinario la mettevano davanti a tutti.
Quante cose ci hai insegnato mamma senza proferir parola, in questo mondo
dove la protervia
intellettuale e la tormentata aspirazione a forme di esistenza più
elevate, ci fanno lottare a
gomitate per essere sempre i primi. E’ possibile defraudare le nostre
aspirazioni per restare
indietro, sconosciuti, ultimi? Io non ne sono capace mamma, eppure il silenzio,
la riservatezza, la
capacità di vedere sempre nell’altro il meglio, la costante
disponibilità verso i bisogni altrui, sono
state le colonne portanti della tua grandezza. Tu non facevi fatica: eri
così. Ma quanta sofferenza
dietro le quinte!