CAROLA
di Luisa Caeroni

Carola a otto anni si ritrovò per molte ore al giorno sopra uno sgabello a lavare i bicchieri degli avventori che frequentavano l’osteria del padre. Non era però quello il vero cruccio. Sua mamma se n’era andata per sempre e l’aveva lasciata sola.
Col tempo imparò a conoscere perfettamente quel mondo di uomini, panciuti esalatori di zaffate fetenti e ancor peggio cattivi interpreti di consuetudini che non le erano assolutamente consone. Qualcuno la accarezzava bonariamente e le diceva parole confortevoli, ma ci voleva altro per tutto quello che aveva dentro.
Un bel giorno suo padre introdusse in casa una sconosciuta che avrebbe dovuto farle da madre o almeno lavare i bicchieri al posto suo, invece l’odiosa presenza fece solo la bella statuina. Mangiava e ingrassava a vista d’occhio senza occuparsi della bambina e neppure la sostituì nel lavaggio dei bicchieri. Anche questa intrusa inspiegabilmente se ne andò per sempre e non fu per niente un dispiacere per Carola. La sua infanzia continuò ad essere quella terribile avventura scaturita dalla morte della sua amatissima mamma.
Fra i dodici e tredici anni Carola si trasformò in una ragazza alta e prosperosa, un tipo teutonico con grandi occhi azzurri e sguardo penetrante, ma il suo temperamento introverso, non favoriva la confidenza con la gente ogni qual volta il cuore glielo avrebbe richiesto. Tuttavia la severità del suo sguardo non ne mutava la bellezza e le forme di giovane donna non sfuggivano alle avide attenzioni dei clienti, così il padre la mandò a lavorare in una filanda.
Crebbe schiva e taciturna, ma questo non le impedì di innamorarsi del giovane Pietro che ogni domenica in trattoria la sommergeva di eloquenti sguardi mentre negli occhi di Carola si riverberava tutta la sua corrispondenza emotiva.
Pietro decise un bel giorno di sottrarla a quell’ambiente zeppato di acre odore di vino e a quella iconografia di maschi enebriati dall’alcol che la guardavano in modo indiscreto. Pietro era poco più che ventenne e la ragazza aveva diciannove anni quando si sposarono e il giovane la introdusse nella casa dei genitori.
La nuova famiglia era dedita al lavoro dei campi, non era nobile di estrazione, ma aveva una signorilità d’animo che nessuno poteva ignorare. Carola vi si trovò inserita come un germoglio nell’humus migliore. Era sicura che avrebbe goduto finalmente della gioia di un nucleo familiare che la amava e la proteggeva. Il carattere dolce e mansueto di Pietro le dava la certezza di un amore che non sarebbe mai stato sciupato dalla caparbietà del maschio e la fattoria nella quale collaboravano molte persone poteva lasciar ben sperare in una certa sicurezza economica.
Nelle sere d’estate, quando il sole stentava a tramontare e si poteva assaporare un meritato riposo, Carola veniva presa per mano dal suo sposo e insieme si sedevano al limite del campo di granoturco a conversare lontani da occhi indiscreti, poi, quando erano sicuri di non essere osservati, si inoltravano fra la vegetazione per i loro silenti e appassionati incontri.
Ben presto però la sposa si rese conto che la vita era più dura di quanto potesse immaginare. Il suo uomo era amorevole, ma il lavoro troppo duro e faticoso perché potesse rimanere tempo per qualche superficialità di cui una donna giovane spesso ha bisogno. In quell’ingrata terra, le braccia non bastavano mai, tanto che lei stessa divenne tenace ed indispensabili collaboratrice degli uomini nel lavoro dell’ortaglia.
Venne rapidamente anche il tempo della maternità. Carola sfornò un figlio dopo l’altro. Partoriva con facilità. Ai primi dolori del travaglio correva, con fragore tellurico, dall’orto al letto rischiando che il nascituro uscisse strada facendo. “L’ è ura – l’è ura (è ora è ora)” gridava concitata, poi sollevava i gonnelloni scuri per essere agevolata nello spostamento e per controllare quello che succedeva e via, verso casa. I familiari al lavoro si fermavano attoniti. Le donne rientravano in casa per essere utili nelle operazioni del parto, gli uomini, in silenzio, attendevano con trepidazione che si annunciasse la nascita della creatura. Quando si udiva il vagito e l’annuncio del sesso, la tensione lasciava il posto alla gioia. Una donna della famiglia si affacciava sull’uscio diceva: “Ü mascc – l’è ‘ndacc tot bè (un maschio, è andato tutto bene)”, oppure “amò öna sceta (ancora una femmina).
Quando si smorzavano i bagliori del lieto evento e la neo mamma riusciva a reggersi in piedi, ritornava al lavoro dell’ortaglia, mentre la nonna assumeva la cura del neonato. Alla mamma sembrava ingiusto doversi privare della gioia di accudire la propria creatura, specie nei primi mesi di vita, ma così doveva essere e non si lamentava. Solo le poppate permettevano di stringersi al petto il bambino. Era il momento più dolce e desiderato. I due corpi si scaldavano vicendevolmente ed il reciproco contatto rendeva percettibile tutto l’amore materno. Le mani di Carola ruvide ed annerite dal sole contrastavano fortemente con il biancore del seno. I suoi abiti scuri e spesso consunti venivano coperti da tovagliette bianche perché la poppate avvenisse nel massimo igiene e per assorbire eventuali rigurgiti. La madre teneva il nascituro attaccato al petto più del necessario, affranta di tenerezza per quella creatura che aveva messo al mondo e che poteva coccolare solo in pochi momenti. Al termine della poppata, quando il piccolo voleva abbandonarsi al sonno lei lo trastullava con coccole esuberanti che però di figlio in figlio andavano scemando.
Gli anni passavano veloci e lenti. Veloci per la figliolanza che aumentava di anno in anno, lenti perché tutto si svolgeva all’interno della fattoria. Erano tempi duri, la famiglia proteggeva come uno scudo la vita dei ragazzi. Gli eventi esterni andavano scoprendo una socialità che si arrendeva alla prepotenza. Solo le pratiche religiose infondevano in loro quella fiducia in Dio che possiede chi ha un animo irrorato dalla fede.
La sera, dopo cena, tutta la famiglia si riuniva per recitare il rosario. I ragazzi dovevano stare inginocchiati con lo sguardo rivolto verso la statua della Madonna posta sopra il campanile che si ergeva superbo sopra i tetti. La posizione era scomoda e le ginocchia facevano male su quel pavimento ruvido. I maschi non riuscivano a stare fermi e Carola li riprendeva bonariamente.
Dopo il rosario, quando si poteva stare ancora un po’ insieme e fuori faceva freddo, la grossa famiglia si radunava in cucina o nella stalla e qualcuno narrava storie di morti ricomparsi che mettevano letteralmente nel terrore i più piccoli. Racconti fantastici tramandati di padre in figlio, frutto di voluti appesantimenti per strabiliare gli ascoltatori. Dopo queste macabre ricreazioni tutti andavano a dormire e i bambini si appiccicavano alle gonne della mamma per sentirsi protetti dai fantasmi che avrebbero potuto incontrare lungo le scale che conducevano alle camere da letto. Carola allora, tenendo il più piccino in braccio invitava gli altri a afferrarsi per mano, in fila indiana, dal più piccolo al più grande in una sorta di trenino e per far svanire la paura intonavano una breve filastrocca. La mamma si interrogava sull’opportunità di far ascoltare ai bambini queste ottuse fantasticherie, che non davano una sensazione reale della vita e che minavano la loro serenità. Forse però li preparava ad incrudirsi per un esistenza pregna di sofferenze e di problemi insolubili.
Cosi, anno dopo anno, mentre il trenino si allungava, la voce della sposa diveniva meno squillante e il suo incedere sempre più lento.

 

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