L’orchestrina
suonava a ridosso del Palazzo della Ragione nella bella piazza medioevale.
Il chitarrista accompagnava il ritmo della musica con uno strano movimento
del labbro inferiore. Il batterista, dalla chioma folta e brizzolata cosparsa
sulle spalle, percuoteva i piattelli e la pelle d’asino dei tamburi
con diabolica frenesia. Alla pianola, serio ed impettito, un musicante schiacciava
i tasti alternando sguardi all’ingiù e all’insù
come un vergine in estasi mistica. Gli altri potevano anche rientrare nella
normalità, ma l’anacronistico abbigliamento fronzoloso alla cow
boy insinuava il sospetto che lo scandire della musica facesse loro ignorare
quello del tempo. Erano quasi tutti sulla sessantina. La piazza era gremita
di gente attratta dalle sinfonie o dalle pantomime di chi ballava sulla piattaforma
di legno installata per l’occasione. Era un assolato pomeriggio di tarda
primavera ed io me ne stavo seduta con un’amica su di una panchina poco
distante: guardavamo divertite ed ironizzavamo sulla variegata umanità
che si presentava ai nostri occhi.
Scorrendo lo sguardo qua e là, vedemmo una donna arrivare in bicicletta.
La conoscevamo bene, era Virginia: un’amica e vicina di casa. Anche
lei isolò fra la gente i nostri volti e, appoggiato il ciclo al muro,
si sedette accanto a noi a conversare.
Le coppie sulla pedana ballavano con impegno e la nuova arrivata, che intendeva
divertirsi, si mise subito in mostra per trovare un compagno di danza. Aveva
una gran passione per il ballo. Diceva che forse in paradiso si trascorreranno
i momenti migliori ballando il valzer al suono di una celestiale musica.
Gli anni di Virginia erano scanditi già settanta volte, ma la pelle
del viso, relativamente liscia e i folti capelli biondo rame, alleggerivano
la sua anzianità. Era però la simpatia a renderla gradevole,
tanto che nessuno disdegnava l’amicizia di questa matura signora.
Si fece vicino un tizio. Aggroppato, con le mani in tasca, lasciando trapelare
con questo mancato stile un poco di timidezza, invitò Virginia a ballare.
Lei lo tolse subito dall’imbarazzo buttandosi nella mischia. La osservavo
con soddisfazione. Vederla volteggiare come una ragazzina, e ridere danzando
con l’improvvisato cavaliere, mi apriva il cuore. - Balla Virgi, balla,
divertiti! Magari ti restano ancora un po’ di anni per gioire. Magari!
–
Pensando alla sua vita, dimenticai tutte le mie malinconie. Un destino avverso
l’aveva a lungo abbrancata, lacerata, fatta a pezzi, ma eccola sottratta
ad ogni possibile dolore, immergersi in una sognante visione della realtà,
senza che nulla più venga a disturbarla. Nulla.
I suoi
bei sogni di giovinetta per bene si infransero dopo aver scoperto di essere
incinta. Una colpa che non si poteva perdonare. Il fidanzato però la
condusse per tempo all’altare e al momento nessuno seppe dell’irregolarità.
L’uomo aveva molti più anni di lei e la trattava con autorità
disdicevole. Virginia si illuse che, con l’amore, avrebbe ammorbidito
il temperamento duro dell’amato. Dovette ricredersi presto. La notte
stessa delle nozze, in un prestigioso albergo sul lago di Garda, dove gli
sposini avrebbero dovuto trascorrere i giorni migliori, Giacomo ebbe il primo
atteggiamento pazzoide. Dopo che si furono coricati, notando l’orologio
al polso della moglie, glielo strappò con furia e lo scaraventò
contro il muro, sostenendo che solo le puttane portano l’orologio a
letto. Virginia si trattenne dal dare risposta alcuna perché un nodo
alla gole ed un profondo stupore le impediva di parlare. Frattanto Giacomo
si era girato dall’altra parte ignorando con cattiveria la presenza
della sposa. Mantenne un atteggiamento distaccato fino al rientro a casa.
Giacomo Biaggioni era un buon avvocato. Sapeva svolgere la sua professione
con perizia, ma i brutti risvolti del carattere non gli permettevano di lavorare
con regolarità. Il denaro, quando c’era, lo spendeva a suo piacere,
riempiendo la casa di pregiati oggetti d’antiquariato e alla famiglia
faceva mancare il necessario. La prole aumentava di anno in anno e quando
i figli divennero quattro, Virginia dovette accettare aiuti dai numerosi amici
che sapeva mantenere per la sua straordinaria simpatia. Persino i bottegai,
se la donna passava verso sera, con il pretesto di dover eliminare prodotti
che all’indomani non avrebbero più smerciato, glieli offrivano
gratuitamente.
L’allegria venduta in strada, non poteva reggere in casa, quando vedeva
il marito maltrattare i figli. Giacomo era eccessivamente irascibile ed insofferente
a qualsiasi situazione anomala, cosi ogni problema familiare doveva essere
sottaciuto perché non scatenasse le solite scene violente. Nemmeno
di notte la povera donna poteva stare tranquilla: l’uomo dormiva con
una vecchia pistola sotto il cuscino e non una sola volta Virginia si ritrovò
con l’arma puntata addosso.
“In fondo l’amo”, diceva quando qualcuno metteva in dubbio
la possibilità di continuare quella terribile routine. “Non è
tutta colpa sua. E’ stato torturato in tempo di guerra e comunque non
ho alternative. I miei figli devono mangiare. Poi Giacomo non è sempre
crudele, ha molti momenti di tenerezza.”
In casa Biaggioni c’erano spesso invitati di riguardo e lei diveniva
così ospite raffinata affinché il marito mantenesse quel prestigio
che non sapeva conquistare in altre circostanze. Una sera, mentre fervevano
i preparativi per una cena con giudici e avvocati, Silvana, la figlia maggiore,
entrò in cucina e si mise a fianco della madre concentrata sui fornelli.
Abbandonandosi ad un sommesso ma isterico pianto, le disse:
“Mamma, mi hanno violentato.”
Virginia si irrigidì. Un’ombra scura calò sui suoi occhi
sbarrati e persi. La postura ben piantata sui due piedi non la fece vacillare,
ma un lungo attimo di vuoto le ottenebrò la mente. Poi, dalle labbra
asciutte, con tono asettico e timbro baritonale, come la voce di uno spirito
maligno rievocato in seduta spiritica, uscirono queste parole:
“Vai in camera tua, stasera c’è gente a cena, ne parliamo
domani. Papà non deve sapere”.
Papà non doveva sapere nulla, nemmeno quando la figlia minore non rientrò
per ben due giorni. Frequentava l’università a Milano, ma rincasava
ogni sera. Virgi e la figlia più grande, il mattino del terzo giorno
partirono alla ricerca di Roberta. La cercarono per tutto il centro di Milano,
sotto il broletto, fra i tossici accartocciati; non c’era. Verso sera
la rinvennero in una viuzza, sdraiata su di un cartone, inebriata dalla droga.
La riportarono a casa, ma papà non doveva sapere.
Papà non sapeva, né gli interessava di sapere perché
una notte la moglie era tanto agitata. Tutto il pomeriggio erano rimbombate
le voci della strage. - Strage alla stazione di Bologna….…- Bomba
alla stazione…..- Morti…, feriti…., carrozze divelte, corpi
dilaniati. Roberta era partita proprio quella mattina per Bologna. Amici veri
la portavano in Grecia a coltivare i prodotti della terra, là dove
non c’era eroina, dove non c’erano quelli che gliela offrivano.
Amici provvidenziali e generosi che l’avrebbero aiutata a risolvere
il suo gravissimo problema. Giacomo non doveva sapere, e fu con me che Virginia
prese il treno per Bologna per cercare sua figlia. Dopo la partenza non aveva
più dato notizie. Nella città martoriata molti cadaveri dovevano
ancora essere identificati e i feriti riempivano le corsie dei vari ospedali.
Roberta. Roberta. Che succede, proprio ora che dovevi guarire! E’ questa?
No, non è lei. Questa? No, questa no, forse, non si può capire
è piena di sangue. No,… questo anello… questo orecchino….
No. Non è lei. No. Non è lei. Basta non ne posso più!
Quanto sangue! Basta! Allora, cerchiamo tra i feriti. Corri, corri all’ospedale,
qui non c’è, cerchiamo nell’altro e nell’altro ancora:
non c’è, non c’è!
Ritornammo a casa e a Giacomo bastarono le bugie di Virginia; non doveva sapere.
In un momento fortunato squillò il telefono.
“Mamma”
“Roberta dove sei?”
“In Grecia, non ho telefonato prima perché qui è quasi
impossibile telefonare.”
“Ma con quale treno sei partita da Bologna?”
“Con quello delle 9,30.”
“Alle 10,15 è scoppiata una bomba alla stazione.”
“Davvero? non sapevo! Qui non arriva alcuna notizia. Sto bene, mamma,
non ti preoccupare. Ciao, salutami tutti.”
Balla Virgi, balla, non pensare neppure a quell’icona preziosa con la crocifissione del Cristo, davanti alla quale tuo figlio si inginocchiò per spararsi alla tempia con quell’arma che tu ben conoscevi. Ma questo Giacomo non avrebbe mai più potuto saperlo. Balla Virgi, balla, i disastri del passato sono frantumati sul sentiero già percorso e il presente non basta mai. Balla Virgi, balla prima che l’orchestra deponga gli strumenti.